- Luca Mansueto, Sebastiano Folli e l’eredità romana nella pittura del primo Seicento
a Siena - Michele Occhioni, Il patrimonio artistico della chiesa di San Raimondo al Refugio:
una ricognizione - Ilaria Bichi Ruspoli, Lo stucco decorativo a Siena. Ricostruzione della figura di
Ludovico Chiappini - Giulia Cicali, La committenza di Concino Concini: riflessioni e prospettive di ricerca
- Giovanni Serafini, Il ritratto di poeta di Carlo Dolci: proposte interpretative
- Carlotta Ghizzani, Spunti sul collezionismo senese di fine Settecento dal prospetto
della scuola dei pittori senesi di Francesco Gori Gandellini - Francesca Celentano, Estratti del Carteggio di Giovan Domenico Olmi e Giovan
Battista Marchetti - Piergiacomo Petrioli, Versi in marmo: la cleopatra di William Wetmore Story
- Patrizia Agnorelli, 1891: “Restaurare o rammendare”. Un capitello di Domenico
Fiscali nella chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano - Luca Ciancabilla, Estrattisti in guerra: gli antichi affreschi italiani sotto le bombe
BAC
Blog of Art Criticism
giovedì 20 giugno 2013
Studi in onore di Bernardina Sani
giovedì 3 maggio 2012
giovedì 12 aprile 2012
RITRATTO E CAPITALISMO
Il moderno ritratto rinascimentale è invenzione del capitalismo? Parrebbe proprio di si, visitando le sale della sontuosa mostra “The Renaissance Portrait” appena terminata al Metropolitan Museum di New York. Nella esposizione appariva una formidabile teoria di volti di banchieri e mercanti italiani del secolo decimoquinto dai grugni poco amichevoli ma dalle vesti raffinate, ritratti con accurato realismo in pose formali, da busti classicheggianti. E accanto a loro accostumate mogli, amanti leggiadre come ninfe e i figli, Ed ancora, in dipinti, busti e medaglie si mostrano signori di città ricche e moderne, spesso mercenari figli bastardi, come Niccolò III d'Este da Ferrara e l'urbinate duca Federico di Montefeltro o il suo rivale, lo scomunicato Sigismondo Pandolfo Malatesta di Rimini, che si sono conquistati il potere e la legittimità a colpi di spada, matrimoni e intrighi diplomatici. Ed ora si fanno effigiare su bronzee medaglie a guisa di imperatori romani, in atteggiamenti di liberale magnanimità o come umanisti protettori delle lettere e delle arti, e in verità lo furono. Tutta questa genia di parvenu, usa infatti l'arte e il ritratto spesso per crearsi una verginità sociale, per autorizzare con le loro pose statuarie e nobili volti antichi un pedigree che annulli nella magnificenza della cultura e del lusso le loro origini non aristocratiche. Basti pensare ai grandi, ma non nobili di schiatta, banchieri fiorentini come i Medici (ampiamente rappresentati in mostra), i Sassetti, i Portinari. Il ritratto diviene dunque un nuovo ed efficace mezzo di riscatto sociale, uno status symbol di propaganda politica. Se nella chiusa e conservatrice società d'impronta feudale quello che conta è la famiglia, la provenienza, nella nuova Europa mercantile, è l'individuo che acquista importanza; grazie all'ingegno ed alla virtù unita alla fortuna (direbbe Machiavelli), un uomo può cambiare la sua posizione sociale, divenire ricco, potente, leader politico ed alla fine anche nobile (come accadrà appunto ai Medici). In tale contesto sorge l'interesse per il ritratto, icona del nuovo mondo, quale consacrazione non dell'astratta idea della “gens”, bensì celebrazione del singolo e delle sue proprie e particolari qualità, ed affermazione nella esattezza dei tratti somatici della personalità. La mostra prende in esame opere a partire dal XV secolo, ma l'inizio di questa moda è molto prima, agli inizi del Trecento, appunto quando comincia quella nuova società mercantile, descritta dal Decamerone; e il primo ritratto moderno, realistico ed ipocrita, è quello dell'usuraio Enrico Scrovegni, effigiato da Giotto, nella chiesa di famiglia, e posto dall'artista nel Paradiso, beato e umile accanto alla Madonna, nello stesso periodo in cui Dante caccia (e giustamente) suo padre Reginaldo, seduto sotto una pioggia di fuoco, all'Inferno.
Piergiacomo Petrioli
venerdì 16 marzo 2012
M&M
Un'opera d'arte e un artista, se davvero validi, possono ben essere considerati come un diaframma fra una cultura e uno stile precedenti e quello successivo. Ovvero, un'opera d'arte nasce da un sostrato estetico, e ne crea uno successivo, generando nuovi stilemi e idee, svolgendo funzione di apripista innovatrice, che affonda le sue radici in una esperienza precedente. Compito della critica è (anche) evidenziare talei connessioni; ed è' questa l'idea che sovrintende le mostre del Museo Morandi di Bologna. Istituzione che non si limita a celebrare il massimo artista contemporaneo cittadino, uno dei mostri sacri dell'arte del Novecento, fossilizzandosi in una agiografia da santino dell'arte, bensì ponendo, di volta in volta, le opere del grande pittore delle silenti nature morte e degli smorti paesaggi in dialogo frugifero con altri artisti contemporanei. Se infatti la pittura di Morandi sgorga dalle premesse di uno Chardin, tanto per fare l'esempio più banale, è vero che influenza anche molti artisti a lui coevi o posteriori. Si spiegano così le passate esposizioni dell'americano Wayne Thiebaud, dagli accenti pop, o del raffinato Alexandre Hollan. Tuttavia se in queste ultime mostre il legame col maestro felsineo non appariva così diretto e stringente da un punto di vista storico, assai più interessante invece si manifesta l'accostamento con un altro grande pittore emiliano del secolo scorso, Carlo Mattioli. L'esposizione, a cura di Simona Tosini Pizzetti, pone in dialogo, fino al 6 maggio, i dipinti della collezione permanente morandiana con alcune nature morte dell'artista parmigiano degli anni Sessanta. Se non amicizia, mercé il carattere riservato di entrambi i pittori, certo vi fu corrispondenza di estetici affetti , una comune radice emiliana e una familiarità che viene testimoniata dai ritratti che Mattioli esegue di Morandi, come nell'imponente e quasi caricaturale (verrebbe da dire carraccesco schizzo) ritratto del 1969 in collezione privata. V'è unione d'intenti nella severa geometria delle scarne composizioni e nei colori spenti (vedi molte opere di Mattioli del 1965) e pure nella matericità corposa dell'impasto pittorico, quasi bassorilievo cromatico, più evidenti nei larghi colpi di spatola del parmigiano, ma chiara anche nelle dense pennellate dei pigmenti misti a sabbia o gesso del bolognese.
Piergiacomo Petrioli
Pinturicchio, Machiavelli ed Enea Silvio
Il popolo è femmina e ama farsi fottere. Questa massima, attribuita a Mussolini, non pare poi così recente idea, ed anche nell'Italia del Rinascimento l'arte e il pensiero sposavano una simile visione della politica. Un curioso e valido esempio di ciò si trova in un luogo insospettabile: il duomo di Siena. Gli affreschi del Pinturicchio (1502) all'interno della Libreria Piccolomini nella cattedrale di Siena, possono essere, a ragione, considerati come uno dei più alti vertici di pittura rinascimentale e di biografia dipinta. Commissionati dal cardinale Francesco Piccolomini, futuro papa Pio III, per onorare suo zio, il celebre papa umanista, Pio II, Enea Silvio Piccolomini, illustrano vari episodi di questo eroe della cultura e della politica del Quattrocento italiano. I soggetti dei dieci dipinti, a cui collaborò, probabilmente, anche il giovanissimo Raffaello, sono presi dall'autobiografia del papa, i Commentarii, compilata un anno prima della sua morte nel 1463. Si tratta di un ciclo pittorico prettamente umanistico, dove Enea Silvio, viene celebrato nelle sue qualità di “cives” rinascimentale, ispirato al modello del buon cittadino romano antico, dedito al negotium (attività politica) e all'otium (attività letteraria). Il Piccolomini in questi dipinti viene effigiato nel suo cursus honorum di politico, da giovane diplomatico al servizio del cardinal Capranica, ambasciatore nelle varie corti d'Europa, infine leader politico della Chiesa cattolica, intento ad organizzare una crociata e quindi poeta, laureato dall'imperatore Federico III. Appare interessante come in questa celebrazione di un papa, manchino quasi del tutto elementi iconografici cristiani, mentre abbondino d'altro canto richiami al potere della casata piccolominea; vi è raffigurato solo un quadro a tema religioso, una pala d'altare dipinta nel dipinto dell'elezione a cardinale, mentre sono decine gli stemmi Piccolomini, retti da cupidi paganeggianti. Fra i numerosi e preziosi dettagli degli affreschi, uno in particolare risulta assai singolare e bizzarro. Proprio nella scena dell'imperatore che incorona il giovane poeta senese, in alto a destra si vede sul balcone di un palazzo, un uomo che picchia una donna. Lungi da essere, a mio avviso, una mera nota di colore, osservazione sapida e “umoristica”, il particolare rimanda alle qualità di Enea Silvio, quale leader politico e, in genere, alla visione dell'epoca circa il buon principe, come Pio II dimostrò essere. Pochi anni dopo gli affreschi, infatti, Niccolò Machiavelli, nel 1513, nel venticinquesimo capitolo del Principe scrive: “Conchiudo adunque , che variando la fortuna , et gli homini stando ne i lor modi ostinati, sono felici, mentre concordano insieme, et come discordano, sono infelici: i giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso, che rispettivo, perché la fortuna è donna: et è necessario, volendola tener sotto, batterla, et urtarla, et si vede che ella si lascia più vincer da questi, che da quelli, che freddamente procedano. Et però sempre (come donna) è amica de' giovani, perché son meno rispettivi, più feroci, et con più audacia la comandano”. Un leader abile deve essere astuto per evitare le trappole tese dagli avversari, spregiudicato nell'uso della forza se ciò si rivela necessario, abile manovratore negli interessi propri e del suo popolo. Il buon principe, deve dunque destreggiarsi tra “virtù” e “fortuna”, dominando la seconda, ch'è femmina, con la prima, intesa come forza, coraggio. E indubbiamente, Pio II, come anche altri regnanti dell'epoca seppe adattarsi a tali disinvolti dettami della pratica politica.
Piergiacomo Petrioli
lunedì 16 gennaio 2012
MANARA L'ANTIEROTICO
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Manara |
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Gil Elvgren |
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Hugo Pratt |
Se, come insegna Platone, l'erotismo concerne essenzialmente l'esperienza d'amore, esso si distingue dalla pornografia, mera meccanica erotica (per citare Rimbaud), perché nell'erotismo è fondamentale la presenza di un vissuto emotivo, di un rimando a sensazioni legate alla vita, alla sensualità, ai sensi, appunto. Questo è l'argomento cruciale che distingue l'arte erotica dalle raffigurazioni di mero soggetto erotico. La mostra senese, dedicata a Milo Manara, che ne celebra il talento come “uno dei grandi maestri dell'erotismo”, offre lo spunto per una minima riflessione su una esposizione che mette in luce tutto il grande talento tecnico del pittore di Bolzano, ma che risulta, “eroticamente” parlando, alquanto noiosa.
Infatti latita nelle opere di Manara quel legame con l'esperienza, quel contatto col reale proprio dell'erotismo. Le sue figure sono una versione modernizzata delle pin ups americane disegnate da Gil Elvgren e colleghi, una teoria di sweethearts tutte simili, dai corpi perfetti e stereotipati, una carrellata di veline ammiccanti, donne che si differenziano in genere per acconciatura, colore dei capelli e pochi tratti somatici (spesso ispirati a questa modella o quella attrice di grido), seriali prodotti di un immaginario ordinario. Illuminante è la sezione dove Manara omaggia alcuni grandi artisti del passato, come Tiziano, Rubens, Veronese, Hokusai, Burne-Jones, Munch. Le figure muliebri hanno tutte lo stesso corpo e pose da calendario Pirelli; dove sono le femmine opime dell'artista fiammingo, le geishe polpose del pittore nipponico che si intravedono dietro paraventi, le algide statue snob del preraffaellita o le adolescenti nervose del norvegese? Paiono tutte uguali, monocordi modellini, belle bamboline di plastica ripetute con infinite varianti. E si stempera in questa banalizzazione del desiderio pret à porter la carica erotica del messaggio artistico, che v'è appunto nell'arte, poiché scaturita dal “vissuto emotivo”. L'unica donna dall'anatomia non idealizzata, ma reale, in mostra appare in un angolo d'una tavola del 1977 di “Alessio il borghese rivoluzionario”.
Impietoso appare quindi il confronto con i disegni e gli acquarelli erotici di un vero maestro del genere, quello che Manara definisce suo mentore, Hugo Pratt, anch'essi esposti anni fa a Siena. I corpi femminili di Pratt sono tutti diversi, reali, a volte imperfetti (vedi Venexiana Stevenson dal corpo piatto e dal naso aquilino), poiché l'immaginario erotico del maestro di Malamocco attingeva non a tipi iconografici, ma a donne, non a figurini patinati, bensì a individui; i disegni sgorgano dal suo vissuto; amori, suggestioni, impressioni, fugaci attimi, le sue modelle hanno il fisico e le fattezze di donne reali, con i loro corpi, i loro caratteri, il loro modo (personale e sempre diverso) di esprimere la propria femminilità e il proprio erotismo (la moglie Gisela Dexter, la cantante Lio, la studentessa americana che darà il suo volto a Banshee, le affascinanti mulatte di Bahia, le prostitute etiopi della giovinezza...); una variopinta ed affascinante carola di corpi, colori, sguardi, ammiccamenti, atmosfere. E per la medesima ragione i disegni di Manara segnano il passo con l'immaginario d'un altro suo amico/guida: Fellini, ed appaiono manierate versioni di quel rutilante caledoscopio di femmine romagnole dai corpi decadenti (la Gradisca) o di generose veneri primitive quali la tabaccaia di Amarcord.
Piergiacomo Petrioli
mercoledì 14 dicembre 2011
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