venerdì 16 marzo 2012

M&M

Un'opera d'arte e un artista, se davvero validi, possono ben essere considerati come un diaframma fra una cultura e uno stile precedenti e quello successivo. Ovvero, un'opera d'arte nasce da un sostrato estetico, e ne crea uno successivo, generando nuovi stilemi e idee, svolgendo funzione di apripista innovatrice, che affonda le sue radici in una esperienza precedente. Compito della critica è (anche) evidenziare talei connessioni; ed è' questa l'idea che sovrintende le mostre del Museo Morandi di Bologna. Istituzione che non si limita a celebrare il massimo artista contemporaneo cittadino, uno dei mostri sacri dell'arte del Novecento, fossilizzandosi in una agiografia da santino dell'arte, bensì ponendo, di volta in volta, le opere del grande pittore delle silenti nature morte e degli smorti paesaggi in dialogo frugifero con altri artisti contemporanei. Se infatti la pittura di Morandi sgorga dalle premesse di uno Chardin, tanto per fare l'esempio più banale, è vero che influenza anche molti artisti a lui coevi o posteriori. Si spiegano così le passate esposizioni dell'americano Wayne Thiebaud, dagli accenti pop, o del raffinato Alexandre Hollan. Tuttavia se in queste ultime mostre il legame col maestro felsineo non appariva così diretto e stringente da un punto di vista storico, assai più interessante invece si manifesta l'accostamento con un altro grande pittore emiliano del secolo scorso, Carlo Mattioli. L'esposizione, a cura di Simona Tosini Pizzetti, pone in dialogo, fino al 6 maggio, i dipinti della collezione permanente morandiana con alcune nature morte dell'artista parmigiano degli anni Sessanta. Se non amicizia, mercé il carattere riservato di entrambi i pittori, certo vi fu corrispondenza di estetici affetti , una comune radice emiliana e una familiarità che viene testimoniata dai ritratti che Mattioli esegue di Morandi, come nell'imponente e quasi caricaturale (verrebbe da dire carraccesco schizzo) ritratto del 1969 in collezione privata. V'è unione d'intenti nella severa geometria delle scarne composizioni e nei colori spenti (vedi molte opere di Mattioli del 1965) e pure nella matericità corposa dell'impasto pittorico, quasi bassorilievo cromatico, più evidenti nei larghi colpi di spatola del parmigiano, ma chiara anche nelle dense pennellate dei pigmenti misti a sabbia o gesso del bolognese.

Piergiacomo Petrioli

Pinturicchio, Machiavelli ed Enea Silvio


Il popolo è femmina e ama farsi fottere. Questa massima, attribuita a Mussolini, non pare poi così recente idea, ed anche nell'Italia del Rinascimento l'arte e il pensiero sposavano una simile visione della politica. Un curioso e valido esempio di ciò si trova in un luogo insospettabile: il duomo di Siena. Gli affreschi del Pinturicchio (1502) all'interno della Libreria Piccolomini nella cattedrale di Siena, possono essere, a ragione, considerati come uno dei più alti vertici di pittura rinascimentale e di biografia dipinta. Commissionati dal cardinale Francesco Piccolomini, futuro papa Pio III, per onorare suo zio, il celebre papa umanista, Pio II, Enea Silvio Piccolomini, illustrano vari episodi di questo eroe della cultura e della politica del Quattrocento italiano. I soggetti dei dieci dipinti, a cui collaborò, probabilmente, anche il giovanissimo Raffaello, sono presi dall'autobiografia del papa, i Commentarii, compilata un anno prima della sua morte nel 1463. Si tratta di un ciclo pittorico prettamente umanistico, dove Enea Silvio, viene celebrato nelle sue qualità di “cives” rinascimentale, ispirato al modello del buon cittadino romano antico, dedito al negotium (attività politica) e all'otium (attività letteraria). Il Piccolomini in questi dipinti viene effigiato nel suo cursus honorum di politico, da giovane diplomatico al servizio del cardinal Capranica, ambasciatore nelle varie corti d'Europa, infine leader politico della Chiesa cattolica, intento ad organizzare una crociata e quindi poeta, laureato dall'imperatore Federico III. Appare interessante come in questa celebrazione di un papa, manchino quasi del tutto elementi iconografici cristiani, mentre abbondino d'altro canto richiami al potere della casata piccolominea; vi è raffigurato solo un quadro a tema religioso, una pala d'altare dipinta nel dipinto dell'elezione a cardinale, mentre sono decine gli stemmi Piccolomini, retti da cupidi paganeggianti. Fra i numerosi e preziosi dettagli degli affreschi, uno in particolare risulta assai singolare e bizzarro. Proprio nella scena dell'imperatore che incorona il giovane poeta senese, in alto a destra si vede sul balcone di un palazzo, un uomo che picchia una donna. Lungi da essere, a mio avviso, una mera nota di colore, osservazione sapida e “umoristica”, il particolare rimanda alle qualità di Enea Silvio, quale leader politico e, in genere, alla visione dell'epoca circa il buon principe, come Pio II dimostrò essere. Pochi anni dopo gli affreschi, infatti, Niccolò Machiavelli, nel 1513, nel venticinquesimo capitolo del Principe scrive: “Conchiudo adunque , che variando la fortuna , et gli homini stando ne i lor modi ostinati, sono felici, mentre concordano insieme, et come discordano, sono infelici: i giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso, che rispettivo, perché la fortuna è donna: et è necessario, volendola tener sotto, batterla, et urtarla, et si vede che ella si lascia più vincer da questi, che da quelli, che freddamente procedano. Et però sempre (come donna) è amica de' giovani, perché son meno rispettivi, più feroci, et con più audacia la comandano”. Un leader abile deve essere astuto per evitare le trappole tese dagli avversari, spregiudicato nell'uso della forza se ciò si rivela necessario, abile manovratore negli interessi propri e del suo popolo. Il buon principe, deve dunque destreggiarsi tra “virtù” e “fortuna”, dominando la seconda, ch'è femmina, con la prima, intesa come forza, coraggio. E indubbiamente, Pio II, come anche altri regnanti dell'epoca seppe adattarsi a tali disinvolti dettami della pratica politica.

Piergiacomo Petrioli