Un'opera d'arte e un artista, se davvero validi, possono ben essere considerati come un diaframma fra una cultura e uno stile precedenti e quello successivo. Ovvero, un'opera d'arte nasce da un sostrato estetico, e ne crea uno successivo, generando nuovi stilemi e idee, svolgendo funzione di apripista innovatrice, che affonda le sue radici in una esperienza precedente. Compito della critica è (anche) evidenziare talei connessioni; ed è' questa l'idea che sovrintende le mostre del Museo Morandi di Bologna. Istituzione che non si limita a celebrare il massimo artista contemporaneo cittadino, uno dei mostri sacri dell'arte del Novecento, fossilizzandosi in una agiografia da santino dell'arte, bensì ponendo, di volta in volta, le opere del grande pittore delle silenti nature morte e degli smorti paesaggi in dialogo frugifero con altri artisti contemporanei. Se infatti la pittura di Morandi sgorga dalle premesse di uno Chardin, tanto per fare l'esempio più banale, è vero che influenza anche molti artisti a lui coevi o posteriori. Si spiegano così le passate esposizioni dell'americano Wayne Thiebaud, dagli accenti pop, o del raffinato Alexandre Hollan. Tuttavia se in queste ultime mostre il legame col maestro felsineo non appariva così diretto e stringente da un punto di vista storico, assai più interessante invece si manifesta l'accostamento con un altro grande pittore emiliano del secolo scorso, Carlo Mattioli. L'esposizione, a cura di Simona Tosini Pizzetti, pone in dialogo, fino al 6 maggio, i dipinti della collezione permanente morandiana con alcune nature morte dell'artista parmigiano degli anni Sessanta. Se non amicizia, mercé il carattere riservato di entrambi i pittori, certo vi fu corrispondenza di estetici affetti , una comune radice emiliana e una familiarità che viene testimoniata dai ritratti che Mattioli esegue di Morandi, come nell'imponente e quasi caricaturale (verrebbe da dire carraccesco schizzo) ritratto del 1969 in collezione privata. V'è unione d'intenti nella severa geometria delle scarne composizioni e nei colori spenti (vedi molte opere di Mattioli del 1965) e pure nella matericità corposa dell'impasto pittorico, quasi bassorilievo cromatico, più evidenti nei larghi colpi di spatola del parmigiano, ma chiara anche nelle dense pennellate dei pigmenti misti a sabbia o gesso del bolognese.
Piergiacomo Petrioli